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Il governo vuole mantenere l’esperienza di Resto al Sud e della Decontribuzione Sud, i due incentivi in scadenza entrambi al 3 giugno prossimo che hanno alimentato rispettivamente la crescita dell’autoimpiego e dell’occupazione nel Mezzogiorno. Magari con nomi diversi o con perimetri modificati rispetto agli attuali ma sicuramente senza azzeramenti di sorta. In queste ore si stanno completando le verifiche tecniche e soprattutto finanziarie indispensabili a garantire la prosecuzione delle due misure. Il tutto nell’ambito della riforma della politica di coesione prevista dalla revisione del Pnrr e il cui primo decreto attuativo dovrebbe essere discusso e approvato dal Consiglio dei ministri di martedì prossimo 30 aprile. Per intenderci, dovrebbe essere lo stesso decreto lavoro che la premier Giorgia Meloni anticiperà ai sindacati nelle prossime ore e che fa appunto riferimento alla svolta sull’utilizzo dei fondi della coesione di cui gli accordi con le Regioni (17 finora quelli siglati, mancano ancora Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna) costituiscono solo il primo, sia pure strategico, passo.
Resto al Sud
Resto al Sud e Decontribuzione Sud verranno rifinanziati, dunque, in questo ambito anche se al momento è difficile entrare in dettaglio sulle possibili decisioni del governo. Per Resto al Sud, che in cinque anni ha raggiunto risultati di assoluta credibilità (all’1 febbraio scorso i progetti finanziati erano 17.429, per 881 milioni di agevolazioni concesse e 63.283 posti di lavoro creati) si sono succedute in queste settimane le interlocuzioni tra Invitalia, la società pubblica del ministero delle Imprese e del Made in Italy che gestisce la misura, e i tecnici del Dipartimento delle politiche di coesione di palazzo Chigi che fa riferimento al ministro Raffaele Fitto.
Decontribuzione
È lo stesso ragionamento alla base della fiscalità di vantaggio che permette alle imprese che operano nel Sud lo sconto del 30% sul costo del lavoro grazie alla Decontribuzione. Anche in questo caso il governo vuole mantenere la misura e cercare di renderla definitivamente strutturale: finora, infatti, è stato necessario il via libera della Commissione europea (siamo alla terza proroga) reso possibile solo dalla sospensione del regime ordinario Ue che ha derogato al divieto di aiuti di tato per i Paesi membri. Ora però che è arrivato il via libera al nuovo Patto di stabilità, quella strada rischia di non essere più percorribile. Per il governo si tratta di individuare un percorso diverso e soprattutto di recuperare le necessarie risorse atteso che la Decontribuzione è sicuramente tra gli aiuti pubblici più consistenti: 3,3 miliardi erogati nel 2022 per agevolare 3,1 milioni di contratti nel settore privato, sia nuovi che in essere, sia precari che stabili. Di sicuro è attraverso di essa che la spinta all’occupazione nel Sud è stata più robusta che nel resto del Paese (lo ha ribadito proprio ieri la Cgia di Mestre sottolineando che l’aumento è stato del 3,5% sul 2023, il più alto delle macroaree). Numeri, come si intuisce, troppo importanti per poter pensare di rinunciare a questa misura che fino al 2025 consentirà lo sgravio più forte alle imprese (il 30% appunto) prima di scalare la percentuale fino al 2029, ultimo anno della sua attuazione (almeno per ora). La sensazione è che la Decontribuzione possa integrarsi con la Zes unica, in vigore da poche settimane e anch’essa finalizzata a irrobustire il tessuto imprenditoriale del Mezzogiorno: ma si tratta di ipotesi che forse sin dal prossimo decreto potranno diventare più o meno certe.
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